Il nostro avvocato Lorenzo Simonetti pubblica il testo del suo intervento in Senato in merito al progetto “LoveGiver”.
Il giurista, d’altronde, sa che – quando si apre un varco nel tessuto del diritto puramente legale, per immettervi un correttivo informale – in quel varco può penetrare qualsiasi corpo estraneo.
(Rodolfo Sacco, 2001)
Piuttosto, proprio in antitesi alla tendenza a fare del diritto civile un museo di anticaglie, preziose quanto si vuole, ma sempre tali, il civilista moderno dovrebbe rendersi conto del significato che, per definire l’oggetto della sua conoscenza, hanno le norme costituzionali che intendono garantire, sul piano costituzionale, istituti, situazioni e rapporti che riguardano i soggetti «privati», sia come individui sia come elementi di comunità intermedie, i loro interessi e la loro attività, come manifestazione di libertà e affermazione di personalità.
(Rosario Nicolò, 1964)
1. Sulla nozione di disabilità.
In via preliminare, ai fini di una chiarezza terminologica, è opportuno intendersi sulla nozione di disabilità.
Tradizionalmente, si può dire che la nozione di disabilità ricomprende “quelle ripercussioni negative a danno del soggetto e dei suoi rapporti sociali, che tendono ad instaurarsi quando questi patisce una riduzione oltre la norma di una o più funzioni sensoriali, motorie e/o psichiche” (C. Hanau, Handicap, in Dig. Disc. Pubbl., VIII, Torino, 1993, 67).
Ciò, quindi, evidenzia come i disabili non costituiscano un gruppo omogeneo.
Il termine handicap, utilizzato nel linguaggio corrente per definire tali situazioni, è mutuato dal linguaggio ippico, nel quale indica la penalizzazione che nei concorsi di equitazione viene inflitta (in termini di tempo, distanza o penso) ai cavalli favoriti, al fine di offrire le stesse possibilità di vittoria anche a quelli meno favoriti. Dunque, se è vero che “con un handicap ben congegnato tutti i concorrenti hanno le stesse possibilità di vittoria” (cfr. C. Hanau, Handicap, cit. p. 67), per quanto riguarda le persone l’interesse da perseguire non è evidentemente quello di penalizzare i “superdotati”, bensì quello di sostenere gli svantaggiati con misure che equiparano o, comunque, tendano all’equiparazione delle posizioni di partenza.
Al fine di pervenire ad un’appagante definizione che meglio identifichi le persone con disabilità, si può utilmente muovere partendo dalle definizioni contenute nel primo sistema di “Classificazione internazionale delle menomazioni, della disabilità e degli handicap” (sigla ICIDH) pubblicato nel 1980 dall’Organizzazione mondiale della sanità (O.M.S.).
La definizione si attestava con riferimento ad una malattia che lascia una menomazione, la quale comporta conseguentemente una disabilità che si traduce – infine – in un handicap. In altre parole, la disabilità è l’oggettivazione della menomazione, mentre l’handicap rappresenta la “socializzazione” di una disabilità. In quanto tale, quindi, riflette le conseguenze culturali, sociali, economiche ed ambientali che all’individuo ne derivano, ponendolo in posizione di svantaggio nei confronti dei suoi simili considerati sulla base delle convenzioni sociali.
Invero, le critiche mosse a tale modello di disabilità definito “consequenziale” (malattia – menomazione – disabilità – handicap) hanno condotto nel 2001 l’O.M.S. all’adozione di un nuovo sistema classificatorio della salute e degli stati di salute ad essa correlati, “Classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute” (sigla ICF). Alla base di tale sistema, vi sono i seguenti principi: universalismo, approccio integrato, modello interattivo e multidimensionale della disabilità.
In particolare, è stata rivalutata la disabilità non come “mancanza” quanto – piuttosto – come una dimensione della diversità umana nella consapevolezza che il cuore del problema non risiede nella condizione della disabilità in quanto tale, ma nei contesti sociali e culturali in cui essa emerge.
A ben vedere, la soluzione ai problemi dei disabili non è tanto fondata sull’assistenza medica, ma sulla rimozione degli ostacoli che impediscono al disabile una piena partecipazione alla vita sociale: il “modello medico”, quindi, deve integrarsi con il “modello sociale”.
In definitiva con il nuovo sistema classificatorio adottato dall’O.M.S. per la prima volta si introduce un approccio integrato al problema il quale, muovendosi nella triplice differente prospettiva del corpo, della persona e della persona in un contesto, risulta fortemente condizionato dal contesto ambientale.
Pertanto, in tale scenario, si affronta in maniera inclusiva il problema della disabilità, riconoscendo il diritto delle persone disabili ad essere parte naturale della società stessa e a godere di pari opportunità. Nella consapevolezza, peraltro, della nostra attuale condizione umana “che per alcuni comporta disabilità nel presente, ma che per tutti può comportarla nel futuro” (cfr. M. Leonardi, ICF. Classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute dell’Organizzazione mondiale della sanità. Proposte di lavoro e di discussione per l’Italia, in Giorn. it. med. riab., 2003, I).
2. Dall’inserimento, all’integrazione, verso l’inclusione sociale delle persone con disabilità.
Ciò considerato, l’evoluzione normativa appena descritta si inserisce a pieno titolo in quel più ampio processo culturale in atto volto ad assegnare al binomio cittadino disabile – servizi alla persona una centralità tale da conferire un rinnovato slancio alle politiche sociali a sostengo delle persone disabili.
Verso la fine degli anni Sessanta si assiste anche in Italia all’avvio di quel processo di inserimento delle persone disabili, essenzialmente nella scuola, ma non solo. Ciò, in breve, è consistito nel superamento della “separazione imposta”, di “segregazione” e di conseguente emarginazione in cui erano stati sino ad allora relegati i disabili in ragione della loro “diversità”.
Successivamente, negli anni Settanta, si comincia a parlare di “integrazione” delle persone con disabilità il che ha comportato l’effetto opposto, ossia l’abbandono delle classi speciali e differenziali di littoria memoria e l’ingresso – adeguatamente preordinato – nelle classi normali. Ciò, evidentemente, al fine di fi far superare agli alunni disabili il proprio handicap mediante la co- educazione con i compagni non-disabili.
Oggi, invece, si preferisce far riferimento al concetto di inclusione sociale delle persone disabili. Ciò, benvero, si persegue soltanto modificando l’ambiente e, più in generale, il contesto sociale in cui il disabile vive. Si cambiano, quindi, le regole sociali e non – invece – come richiesto dall’integrazione, ricercando l’adattamento della persona con disabilità all’ambiente così com’è.
L’inclusione è proprio quella pratica relazionale che riconosce e rispetta il diritto ad essere se stessi ed il diritto ad esprimere la propria diversità in ogni contesto, nella consapevolezza che l’inclusione riguarda tutti indistintamente.
Sul punto, peraltro, è opportuno specificare che l’inclusione sociale del disabile deve essere predicata e realizzata tenendo conto delle diversi forme di disabilità in quanto i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo. Vi sono, infatti, forme diverse di disabilità: alcune hanno carattere lieve ed altre gravi. Come ricorda la Corte Costituzionale (sentenza 26 febbraio 2010, n. 80) “..Per ognuna di esse è necessario, pertanto, individuare meccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap da cui risulti essere affetta in concreto una persona. Ciascun disabile è coinvolto in un processo di riabilitazione finalizzato ad un suo completo inserimento nella società”.
3. Il “riconoscimento” e la “garanzia” dei diritti dei disabili per il conseguimento di quella “pari dignità sociale” che consenta il “pieno sviluppo della persona” con disabilità.
Nella nostra Carta Costituzionale non si rinvengono norme ad hoc concernenti la tutela delle persone disabili, al pari di quanto avviene, invece, in Costituzioni più recenti quali quella spagnola e quella portoghese.
In verità, il “riconoscimento” e la “garanzia” dei diritti dei disabili per il conseguimento della pari dignità sociale (art. 3 Costituzione) permette di consentire il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 cpv. Cost.). Questo, in particolare, trova un saldo fondamento proprio in quel parametro espansivo offerto dalla Costituzione e rappresentato dalla pienezza dello sviluppo della persona.
Attraverso l’espansività di questo parametro costituzionale il disegno personalista presente nella nostra Costituzione evidenzia il riconoscimento in favore dei cc.dd. soggetti deboli di quei diritti alla riduzione delle disuguaglianze: ciò è, infatti, condizione imprescindibile “per realizzare il loro diritto ad avere pari opportunità” (cfr. A. D’Aloia, Introduzione. I diritti come immagini in movimento: tra norma e cultura costituzionale, in Diritti e Costituzione, Milano, 2003).
Ad assumere rilievo è il principio di dignità umana che consiste nel rendere giuridicamente doveroso che tutti gli uomini siano trattati come è ritenuto (moralmente) doveroso che sia trattato l’uomo in quanto tale.
In altre parole, nella nostra Costituzione il fondamento ultimo di ogni disposizione è rappresentato dalla persona umana, considerata “libera e tendenzialmente uguale” nonché titolare di diritti inviolabili in quanto addirittura preesistenti alla Costituzione. In relazione a tali diritti le istituzioni pubbliche si devono assumere l’impegno di renderli effettivi, malgrado i tanti limiti di fatto esistenti, ai quali non possono e soprattutto non devono aggiungersi altri limiti derivanti dal mero stato di inabilità delle persone interessate.
Sul punto, viene in rilievo quella che autorevole dottrina costituzionalista (Modugno) definisce “il diritto a poter usufruire dei diritti: un meta-diritto fondamentale e inviolabile che nel contempo è anche un “diritto a condizioni minime di esistenza”. Praticamente parlando, tale meta-diritto riposa sul combinato disposto della previsione sull’ “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” si cui all’art. 2 Costituzione e di quella “pari dignità sociale” di cui all’art. 3 Costituzione.
4. Sul diritto alla sessualità dei disabili.
Quanto appena rappresentato si traduce nel diritto delle persone con disabilità a fruire di condizioni minime per un’esistenza libera e soprattutto dignitosa, nella consapevolezza, come ebbe a dire la Corte Costituzionale che tra i compiti cui lo Stato non può in nessun caso abdicare v’è proprio quello di “contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana” (Corte Costituzionale, sentenza 25 febbraio 1988 n. 217).
Come sancito dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità (1974) “la salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali nell’essere sessuato al fine di pervenire ad un arricchimento della personalità umana, della comunicazione e dell’amore”.
E’ indubbio come il diritto alla salute sessuale e riproduttiva sia riconosciuto come uno dei diritti umani fondamentali dall’ordinamento internazionale, nonché da molti accordi universali:
- La Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo, tenutasi a Teheran nel 1968, è la sede nella quale i “diritti riproduttivi” sono stati per la prima volta presi in considerazione e qualificati come diritti umani;
- La Conferenza Internazionale delle donne a Città del Messico del 1975, è la sede nella quale si parla di “diritti riproduttivi” al femminile, facendo riferimento sia al controllo delle nascite, che alla riproduzione artificiale. In questo contesto si sono identificati tre obiettivi prioritari da realizzare: parità, sviluppo e pace;
- Durante la Conferenza Internazionale del 1994 al Cairo, venne negoziato il Programma di Azione su Popolazione e Sviluppo dei prossimi 20 anni e i temi del diritto alla riproduzione, alla salute sessuale, al diritto ad essere informati e ad avere accesso ai metodi di pianificazione familiare, vengono connessi all’obiettivo della stabilizzazione demografica e dello sviluppo sostenibile;
- La Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne di Pechino, del 1995, ha rafforzato gli accordi del Cairo e riaffermato molti principi da essa sanciti. Il paragrafo 96 decreta che “I diritti umani includono il diritto ad avere controllo e a decidere liberamente e responsabilmente circa la propria sessualità, la propria salute sessuale e riproduttiva, senza coercizione, discriminazione e violenza”. Il Programma di Azione si propone di migliorare la situazione di tutte le donne, ma una particolare attenzione è riservata a coloro che si trovano in condizioni svantaggiate e che soffrono della carenza di adeguate strutture sanitarie.
Ciò considerato, è possibile affermare che la dignità umana di un individuo – abile e non abile – viene a manifestarsi anche per mezzo della propria sessualità.
Il diritto alla sessualità trova spazio in seno all’art. 2 della Costituzione (Cass. civ., Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801 in Giur. It., 2006, 4, 691) ed è oggi inquadrato nell’ambito dei diritti fondamentali della Persona, con substrato inviolabile (cfr. Cass. civ., Sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2311 in Danno e Resp., 2007, 5, 589).
Invero, l’inviolabilità della sfera intima discende (anche) dall’essere la sessualità il luogo in cui ciascuno compendia il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità (sentenza Corte Costituzionale, 24 maggio 1985 n. 161).
Essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è, quindi, “senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire” (sentenza Corte Cost., sentenza 18 dicembre 1987 n. 561).
Inoltre, è opportuno ricordare che il Legislatore ha voluto riconoscere il diritto alla affettività e alla sessualità anche “alle persone affette da minorazione fisica o psichica” (Tribunale di Brescia, ordinanza 17 febbraio 2010). Tale riconoscimento è stato amplificato e ribadito anche in sede internazionale.
Sul punto, è sufficiente far riferimento alla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, stipulata a New York il 13 dicembre 2006 (ratificata dall’Italia per effetto degli artt. 1 e 2 della legge 3 marzo 2009 n. 18). Il trattato in esame riconosce espressamente (lett. n del preambolo) “l’importanza per le persone con disabilità della loro autonomia ed indipendenza individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte” (collocati nel novero dei “principi generali”, v. art. 3 della Convenzione).
La stessa Convenzione, all’art. 12 comma IV (“uguale riconoscimento dinanzi alla legge) chiaramente statuisce “Gli Stati devono assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, che siano scevre da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita, che siano proporzionate e adatte alle condizioni della persona, che siano applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a periodica revisione da parte di una autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario”.
La questione problematica si manifesta agli occhi dell’interprete, allora, sotto altro angolo prospettico: non è (e non può essere) in questione il diritto del disabile alla sessualità (il c.d. an della situazione giuridica soggettiva), ma può venirne in rilievo il suo concreto esercizio, nel senso che potrebbe risultare che la sessualità non è consapevolmente vissuta dall’interdetto il quale non è “Soggetto” della situazione sessuale ma “oggetto”. Ecco, in questo caso (e solo in questo caso) sono ipotizzabili delle misure di intervento: tramite il coinvolgimento dell’Autorità penale, l’allontanamento (con gli strumenti di Legge) delle persone che “mercificano” la sessualità dell’incapace, l’adozione di strumenti di monitoraggio e sostegno (tramite il Consultorio o i Servizi sociali e un supporto psicologico o psicoterapeutico).
Benché in altro settore (sul diritto dei detenuti all’affettività ed alla sessualità) la Corte Costituzionale è tornata recentemente a ribadire l’inviolabilità del diritto alla sessualità. Infatti, con la sentenza 19 dicembre 2012, n. 301 la Corte ha riconosciuto il diritto del detenuto in carcere ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il convivente more uxorio, nel più ampio contesto del diritto all’affettività, sarebbe ricompreso tra i diritti inviolabili dell’uomo: diritti che, sebbene ricevano limitazioni per effetto della condizione di restrizione della libertà personale, non possono essere annullati.
La preclusione posta di fatto all’esercizio del diritto sarebbe in contrasto anche con il principio di uguaglianza e ostacolerebbe il pieno sviluppo della persona del detenuto. Inoltre, si concretizzerebbe in un trattamento contrario al senso di umanità, tale da compromettere la funzione rieducativa della pena in quanto l’astinenza sessuale, incidendo su una delle funzioni fondamentali del corpo, determinerebbe pratiche quali la masturbazione e l’omosessualità “ricercata o imposta”.
Con riferimento alla tutela della libertà sessuale, la Corte di Cassazione penale (Sez. III, 20.03.2013 n. 12836) ha riconosciuto come il principio di libera autodeterminazione della sfera sessuale trovi applicazione anche nei confronti della prostituta, in quanto è rimessa all’esclusiva disponibilità di quest’ultima la vendita del proprio corpo.
Tutto ciò considerato, è opportuno segnalare come in Germania e nei Paesi Bassi sia stato istituito un “Servizio di Assistenza Sessuale” gestito da associazioni come la SAR (Associazione per le Relazioni Alternative) nei Paesi Bassi e la SENIS in Germania. Il servizio consiste in prestazioni sessuali e/o di “tenerezza” per disabili dei due sessi, compresi gli omosessuali, da parte di assistenti formati appositamente che si recano nel domicilio dell’utente o negli Istituti.
Il servizio in questione consente l’espressione dei bisogni sessuali ma non solo. Cerca infatti di sviluppare un’esperienza affettiva e non una pura e fredda prestazione sessuale che potrebbe mortificare o sarebbe impossibile da raggiungere per alcune tipologie di utente. Gli operatori vengono formati appositamente e lavorano in modo volontario senza essere incatenati al mondo della prostituzione, offrono carezze, parole, atmosfere calorose e protette dove la menomazione non sia considerata come un limite all’appagamento dei bisogni sessuali e affettivi, inoltre i rapporti sono protetti dal rischio di contrarre malattie a trasmissione sessuale. Le modalità di selezione degli assistenti sessuali sono assolutamente rigorose e questa selezione prevede un difficile percorso.
La figura dell’assistente, quindi, è formata ed indirizzata al conseguimento di un appagamento sì fisico, ma anche affettivo, laddove la disabilità, psichica e non solo, rende normalmente gravoso il perseguimento di questo complesso bisogno primario.
Nel 2004 la FaBS (Fachstelle Behinderung und Sexualität) diede inizio alla prima formazione per assistenti sessuali, come percorso finale di un processo educativo molto complesso centrato sul rispetto dell’altro, sull’etica e sull’ascolto. Questo tipo di formazione è già attiva in Germania, Gran Bretagna, Olanda e Paesi Scandinavi. Tali progetti nascono dalla necessità di rispondere al semplice bisogno del portatore di disabilità di avere un’intimità propria che migliori la possibilità di relazionarsi con il mondo esterno con una diminuzione della frustrazione e dell’aggressività conseguente alla gratificazione di una parte così importante dei bisogni primari. Gli assistenti sessuali propongono ai disabili che lo richiedono massaggi, carezze, esperienze sensuali o giochi erotici e per aiutare il cliente, si spogliano completamente anche loro. Sono i clienti a fissare il limite da non superare e in alcune agenzie non è possibile praticare sesso orale o penetrazione.
Sul punto, oggi in Parlamento pende il Disegno di legge 1442 del 24 Aprile 2014 “Disposizioni in materia di sessualità assistita per persone con disabilità”.
Ciò considerato, è opportuno chiedersi: è possibile ritenere l’assistenza sessuale per un disabile un diritto alle prestazioni di cura e di riabilitazione? In altri termini: sebbene non possa essere qualificato come un diritto del disabile nei confronti dello Stato, la richiesta di assistenza sessuale potrebbe essere penalmente perseguita e, quindi, sanzionata?
Roma, 9 giugno 2016
Avv. Lorenzo Simonetti